Dal 1503 al 1700

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Vita religiosa delle Monache Benedettine di Eboli dal 1503 al 1700

di Paolo Sgroia e Giuseppe Barra

 

La prima Visita Pastorale documentata del monastero delle Benedettine è del 25 luglio 1511, ordinata dal Cardinale Federico De Campo Fregoso, arcivescovo di Salerno. Nella relazione di Santa Visita, effettuata dal Vicario dell’arcivescovo, si dice che la chiesa ed il monastero sono posti fuori le mura della terra di Eboli: “extra muros terra Ebuli”. Non sappiamo quante sono le monache che in quel periodo alloggiano nel monastero, per mancanza di documenti, come non sappiamo se realmente le figlie degli ebolitani iniziano ad entrare nell’Ordine già dal 1503 o da quando le stesse si trasferiscono nella città.

Il monastero riceve un’altra visita il 20 maggio 1542, dal vescovo di Acerra Giovanni Paolo de Tisis, uditore del Cardinale Nicola de Ridulphis, il quale ritrova Badessa Lucrezia de Mercatoribus “et est sola ipsa cum alia una moniali” con la chiesa “bene accomodate”.

Nel 1560 ben quattro sorelle ebolitane entrano in monastero e sono Diana, Lucrezia, Antonia e Porzia Caravita. Dopo circa 40 anni, ed esattamente nel 1605, un’altra suor Porzia Caravita, sorella di suor Claudia Caravita, lascia l’abito religioso “et maritò Giovanni Felice Bottigliero”. Molto probabilmente queste ultime due sorelle erano le nipoti delle prime quattro menzionate.

Alla fine del ‘500, si riscontra ad Eboli una penuria di preti secolari, dovuto anche all’accresciuta presenza dei frati francescani in città: oltre al convento di S. Francesco d’Assisi dei Frati Conventuali, nel 1490 è fondato il convento della SS. Trinità dei Frati Minori Osservanti in località Turello, e nel 1558 fanno richiesta di venire ad Eboli i Frati Cappuccini che giunsero nel 1562 al Paterno prendendo possesso proprio del monastero lasciato dalle Benedettine. In Eboli vi sono, anche, i Frati Minimi di S. Francesco da Paola che dimorano nell’abbadia di S. Pietro Apostolo, i Padri Celestini del monastero di Portadogana intitolato a S. Pietro a Maiella e i Padri Domenicani del monastero di S. Maria delle Grazie; era stato soppresso da pochi anni il monastero dei Verginiani dedicato alla SS. Annunziata posto nelle adiacenze di Porta Pendino.

Il clero secolare dipende per la maggior parte dalla Collegiata di S. Maria della Pietà, composto dal Primicerio, il Cantore e dodici canonici. Dipendano dalla Collegiata i preti delle parrocchie di S. Maria ad Intra, S. Michele Arcangelo, S. Matteo, S. Caterina, S. Lorenzo, S. Bartolomeo che percepiscono annualmente ducati 311. La parrocchia povera di S. Eustachio con il solo parroco percepisce appena ducati 20 annui, e la parrocchia di S. Nicola de Schola Graeca, dipendente dall’abbadia di S. Pietro Apostolo con il parroco ed il rettore percepiscono ducati 10 l’uno annualmente.

L’arcivescovo Mario Bolognino è costretto con lettera del 12 gennaio 1593, autorizzato dalla Santa Sede, a provvedere dopo diligenti informazioni all’assistenza spirituale e religiosa delle monache, specialmente per le confessioni e la celebrazione della messa con i sacerdoti regolari: “Per il difetto e la carestia che si trovava in quella terra di preti secolari” in modo che “Le Monache non abbiano ad avere in questa parte che è tanto principale mancamento veruno”.

L’11 aprile 1614, il Pontefice Paolo V, dà disposizione all’arcivescovo di Salerno, cardinale Lucio Sanseverino (19 novembre 1612 – 25 dicembre 1623), di non far più accettare le monache nel monastero di Eboli “e non permetta al monastero di Eboli si vestano monache di sorta alcuna, essendo intenzione della Santa Sede di estinguerlo” a meno che questo non si uniformasse alle disposizioni del Concilio di Trento.

L’arcivescovo Lucio Sanseverino, nell’anno 1617, ordina che il monastero sia trasformato in clausura.

Nel 1656, in tutto il Regno si diffonde la peste e da una lettera che le Benedettine inviano all’arcivescovo di Salerno si legge: “la terra di Eboli è desolata per la morte di 1400 persone”. A causa della peste la comunità Benedettina è ridotta nell’anno 1656 a solo cinque religiose, tra cui due sono mandate via perché non adatte alla vita monastica. Nel monastero prima della peste ci sono dalle dieci alle quattordici monache. Giovanna Perretta e Giustina Caravita vanno ad abitare dai propri parenti senza permesso; donna Faustina Moretta solo dopo l’assenso si trasferisce dai familiari. Il monastero, quindi, è momentaneamente chiuso e la chiave è consegnata al canonico Sabatino.

Le monache che dimorano in Eboli vagano per la città e questo è scandalo. Le autorità ecclesiastiche allora ordinano loro di restarsene chiuse nelle case delle proprie famiglie, pena la scomunica. Le religiose non ubbidiscono. Il Clero dopo la disubbidienza chiede la riapertura del monastero finché le monache vi possono ritornare. Dopo che finalmente la struttura è riaperta le religiose ottenuta la chiave, la usano a loro piacimento, e, per questo motivo, sono scomunicate per un anno e mezzo.

Da una lettera datata, 14 novembre 1656, di don Diego de Rago canonico e vicario del monastero, conosciamo con precisione le vicende delle monache nel tremendo periodo che la peste decima la popolazione del nostro paese. Egli fa presente: “…che prima vi erano 10 monache ora ne sono rimaste 4 mentre le altre sono morte per la peste e due monache se ne sono uscite ed andate in casa loro perché non avevano i requisiti necessari e queste sono anche morte. Le quattro rimaste sono uscite dal monastero mentre si seppelliva Caterina delle Trenche, aperta la clausura per seppellire detta morta e donna Giovanna Perretta e donna Giustina Caravita se ne fuggirono con un’altra zitella novizia. Mi disse don Diego Troiano, quale haveva cura del Monastero in quanto io ero infermo e andarono a stare suor Giustina Caravita in casa del signor don Scipione Caravita suo fratello carnale e suor Giovanna Perretta in casa di don Donato Perretta suo zio carnale. Le altre due monache restarono in Monastero e non uscirono perché avevano in atto il male e quando tutto passò gli diedi licenza di uscire. Diedi ordine tempo dopo che tornassero a dormire al monastero di notte ma non tornarono né di notte né di giorno. Le monache non ubbidirono e non tornarono al monastero, alla fine ebbi ricorso al vicario, così tornarono al monastero ma con libertà licenziosa. Così serravo il portone di ferro col catenaccio”.

Dopo la peste è eletto arcivescovo di Salerno mons. Giovanni De Torres (2 aprile 1658 – 1662). Egli trova Salerno e Diocesi decimate dalla recente epidemia, che ha lasciato l’impronta della desolazione dovunque: nel Clero, nelle comunità religiose, nelle confraternite e nella popolazione. Eboli conta un’alta percentuale di morti, nel monastero delle Benedettine ora “ tres tantum moniales reperiuntur”, le quali non sanno leggere e perciò non frequentano il coro per l’ufficiatura.

Dalla relazione ad limina, redatta nel 1681, dall’arcivescovo fra Alfonso Alvarez, al secolo Ossorio Barba (22 giugno 1676 – 18 ottobre 1688) dell’Ordine Carmelitano Scalzi, si apprende che il monastero delle Benedettine ancora con tre monache, manca di ogni disciplina regolare. Le vecchie sono decrepite “aetas sensibus”. Il monastero per decreto della Santa Congregazione è da estinguersi; intanto viene interdetta da parte del Presule ulteriore ricezione di novizie.

L’anno seguente, nel gennaio del 1682, muore la prima delle tre Benedettine.

Il 6 luglio 1682, l’Università di Eboli rappresentata da don Domenico de Mirto e dal magnifico Vincenzo Corcione con il procuratore del monastero di S. Antonio Abate, don Francesco de Amore, e alla presenza della Badessa donna Giovanna Perretta e della Vicaria donna Faustina Moretta, si radunano tutti nel parlatorio del monastero. Visto che per ordine della Santa Congregazione è stato proibito far entrare nuove monache e visto che vi sono solo due monache e con la morte di queste il monastero si dovrà chiudere, l’Università chiede alla Santa Congregazione e a chi di competenza di reintegrare il monastero. Quattro mesi dopo le due monache cessano di vivere ed il monastero viene chiuso per alcuni anni.

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